I confini del lecito nella storia della letteratura russa contemporanea: Solzenicyn, Trifonov, Bitov
Per buona parte del XX secolo, almeno fino al crollo dell’impero sovietico,
l’organismo incaricato della gestione della “cosa letteraria” in Russia era l’Unione
degli scrittori sovietici, strettamente legata al partito comunista. Impossibile pensare
alla letteratura russa del secolo scorso in maniera indipendente dalle vicende
politiche. Impensabile un’analisi della “cosa letteraria” che prescinda dai risvolti
politici ad essa connessi.
Tuttavia, se pensassimo alla letteratura russa del XX secolo come a un unico blocco
letterario di scrittori ed opere affini al regime, compiremmo un grave errore. La storia
della letteratura russa contemporanea è ricca di esempi di autori che si discostano, in
maniera più o meno esplicita, e più o meno tollerata, dalle istituzioni ufficiali.
La stessa Unione degli Scrittori era molto meno monolitica di quanto non si possa
pensare. Al contrario, al suo interno nascondeva le stesse crepe che caratterizzavano
le alte gerarchie del partito comunista. Proprio in tal senso, in alcuni casi fu usata
come una vera e propria arma per combattere battaglie politiche interne allo stesso
partito comunista.
Il primo ad utilizzare con grande risolutezza l’arma letteraria fu Chrushev. Divenuto
leader nel 1954, egli diede il via alla cosiddetta fase di “destalinizzazione”, nella
quale per la prima volta in Unione Sovietica venivano denunciati i crimini commessi
dal regime stalinista con alcune aperture nei confronti dell’occidente. Nel campo
letterario, a partire dalla fine degli anni ’50, Chrushev agì appoggiando esplicitamente
quelle opere che incentivavano il clima di rinnovamento funzionale alla sua strategia
del “disgelo” dalla fase dello stalinismo.
Aleksandr Solzenicyn – “Una giornata di Ivan Denisovic”
Un autore che si lega a questa fase è Aleksandr Solzenicyn, scrittore che fino a quel
momento era stato tenuto ai margini, non appartenendo all’Unione degli scrittori. Fino
al disgelo Crusheviano, i suoi scritti non avevano avuto spazio fra le pubblicazioni
consentite a causa delle sue posizioni anti-staliniste, che gli erano addirittura costate
otto anni di reclusione in un gulag. E’ con il XXII congresso del PCUS, del 1961, con
il concretizzarsi del grande attacco a Stalin da parte di Chrushev, che Solzenicyn
decide di uscire allo scoperto, proponendo la pubblicazione di un suo racconto “Una
giornata di Ivan Denisovic”, nel quale affrontava il tema dei gulag staliniani. In
quest’opera, il cui titolo originale “Sc-854”, numero di matricola del protagonista, era
stato modificato perché ritenuto troppo brutale, Solzenicyn descrive la giornata di un
prigioniero in un gulag siberiano. Per la prima volta in Unione Sovietica il tema dei
campi di prigionia viene sdoganato e viene consentita la pubblicazione di un’opera
che tratta apertamente dei gulag. E’ lo stesso Chrushev ad incentivarne la
pubblicazione, consigliandone persino la lettura ai membri del partito durante una
seduta del Comitato Centrale del PCUSS.
Evidente è l’intento di Chrushev, che vede nell’opera di Solzenicyn un’arma da
utilizzare nella sua battaglia contro lo stalinismo. Purtroppo per l’autore, non passerà
molto tempo prima che la fase di destalinizzazione venga chiusa e lui stesso venga
nuovamente emarginato, al pari di un traditore della patria socialista. In ogni caso,
anche se l’apertura a Solzenicyn è durata solo qualche anno, il confine tra lecito e
illecito si è definitivamente spostato. Ciò che prima non sarebbe mai stato
pubblicabile ha avuto, per la prima volta, un ruolo di grande rilievo nella storia
letteraria russa.
Jurij Trifonov – “La casa sul lungofiume”
Chiusa la fase delle aperture legate al disgelo, la letteratura non può tornare ad essere
un blocco indifferenziato. L’esempio di Solzenicyn ha lasciato un segno indelebile.
Da un lato ci sono gli autori che ormai non sono più disposti a scendere a
compromessi col regime, tra i quali possiamo collocare lo stesso Solzenicyn.
Dall’altro lato si forma una cosiddetta “zona grigia”, nella quale gli autori mettono
sempre più in discussione l’entità di quel compromesso, che diviene via via sempre
più labile.
Si tratta di scrittori che, seppur non apertamente dissidenti né dichiaratamente ostili al
regime, ed anzi in alcuni casi membri di spicco della comunità letteraria russa,
contribuiscono al rinnovamento della letteratura sovietica, spostando a poco a poco il
confine tra il lecito e l’illecito.
Uno di questi è Jurij Trifonov, che negli anni ’70 sviluppa il tema della crisi e del
disagio esistenziale del singolo nella società sovietica. Una società che, partendo
dall’esaltazione di un’ideale, ha raggiunto infine secondo l’autore il più vuoto
conformismo.
Trifonov è uno scrittore ascrivibile al filone della “prosa cittadina”, che si
contrappone a quella “contadina” non solo per le diverse ambientazioni, quanto per il
diverso approccio al disagio individuale. Dove nella prosa contadina il lettore trova
una speranza di soluzione e redenzione, in quella cittadina vi è solo disperazione. In
Trifonov non ci sono dimensioni ideologiche consolatorie in cui rifugiarsi, aspetto
tipico della letteratura contadina, e più in generale della letteratura russa. Sebbene
l’autore prediliga la città come ambientazione per la sue narrazione, egli evita di
descriverla con toni mitici. In tale contesto, non solo la città non risolve la crisi, ma,
al contrario, mette a nudo la scarsa tenuta della morale individuale. Scompare
l’ottimismo della letteratura sovietica. Rispetto a Dostoevsky, di cui Trifonov è
debitore per quanto riguarda il richiamo al disagio esistenziale, il dolore non ha più
alcuna funzione catartica. Nel romanzo “La casa sul lungofiume” vengono descritti
quarant’anni di storia sovietica, attraverso la vita degli occupanti del palazzo che si
affaccia sul fiume Moscova. In quest’opera Trifonov descrive il degrado della società
sovietica, puntando l’occhio sulla casa e i suoi occupanti e rivelandone la decadenza
come a farne una metafora sociale.
Andrej Bitov – “La casa Puskin”
Un altro esempio di quanto la letteratura del XX secolo sia variegata, ricca di
sfaccettature e ben lungi dalla monoliticità, è rappresentata da Andrej Bitov. Membro
dell’Unione degli Scrittori, Bitov è un autore che gode di grande prestigio letterario in
patria, ma che viene apprezzato anche all’estero e all’interno del samizdat.
Il suo romanzo più importante, “La casa Puskin”, nella fase di scrittura era stato
soggetto a numerosi tagli e censure. Accettando di buon grado questi interventi, ma
proseguendo nella scrittura secondo le proprie convinzioni, Bitov riesce a mantenere
il suo posto nell’Unione degli Scrittori, preparando al contempo il terreno per la
pubblicazione completa dell’opera, che avverrà soltanto nel 1987, in piena
perestrojka.
La “Casa Puskin” è il nome con cui viene conosciuta la sede dell’Istituto di
Letteratura Russa di Pietroburgo, e in questo senso Bitov la immagina come pronta
ad accogliere tutta la letteratura. In quest’opera, l’autore mescola infatti diversi generi
letterari, scrivendo qualcosa che in russo non si era mai visto. L’autore la considera
come un rifugio fuori dal tempo e dallo spazio, lontano dal marasma di falsità della
società sovietica.
Non appena pubblicata, “La casa Puskin” viene considerata un ideale di testo postmoderno
Russo. Tale definizione, che può sembrare paradossale per un testo scritto
vent’anni prima, conferma il fatto che da tempo fosse in gestazione una nuova fase
letteraria. Dimostrazione ulteriore del fatto che i nuovi generi, tra i quali il postmodernismo,
e la nuova letteratura che emergeranno alla fine degli anni ’80 con il
crollo dell’Unione Sovietica, non sono sorti in maniera improvvisa ed inaspettata, ma
che, al contrario, essi sono il frutto di una storia letteraria articolata e complessa che
ha attraversato tutto il XX secolo in Russia.
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