IL DRAPPO NERO
Quello che vado a raccontarvi accadde al compimento del mio diciottesimo anno di età.
Dormivo nel buio della mia camera, affossato sotto pesanti coltri di lana e flanella, al riparo dal freddo dell’inverno che ormai imperversava nella regione di Brema, agli estremi confini nord della Germania.
Ci eravamo trasferiti in quella zona da meno di un anno, poche settimane dopo la morte di mio padre. Era sempre stato un uomo forte e in salute, dal carattere schivo e introverso, e quando si era ammalato aveva fatto in modo che nessuno potesse avvedersene. Solo nell’ultimo periodo il suo volto si era fatto rugoso e pallido, il corpo smagrito, e in pochi mesi era passato dalla malattia alla morte senza che nessun medico avesse potuto fare nulla.
Mia madre aveva deciso di lasciare l’Italia, e con essa tutti gli amici e i parenti, per trasferisci a Beverstedt, lontana dai ricordi e dalle memorie di quella vita felice che non sarebbe più tornata e che ora tanto la intristivano.
Dormivo, dicevo.
Dormivo profondamente, sprofondato in quel regno dei sogni che ci priva dalle crudeltà del mondo reale. Forse sognavo l’Italia, forse mio padre, non lo ricordo. Come a distanza di tempo quasi nessuno può ricordare con precisione i sogni, che pure ci sembrano così reali mente li viviamo e lentamente sfumano al nostro risveglio. Eppure ancora ricordo i vivi dettagli di quel momento.
Gocce di pioggia picchiavano contro i vetri e le lamiere del tetto, un rumore sordo e insieme assordante, ritmico come il tamburello scosso da un bimbo.
Una campana scoccò l’ultimo colpo della mezzanotte, e allora aprii gli occhi, il suono dell’ultimo rintocco che ancora sfumava nell’aria nera della notte.
Accanto al letto, in piedi, una figura demoniaca.
Alta più di due metri, magra e ricurva sotto il peso di un grosso mantello grigio, il volto nascosto da un enorme cappuccio. Soltanto gli occhi brillavano nell’oscurità, insieme gialli e rossi come un fuoco appiccato nella notte.
Accanto al demone, poco scostato dal letto, un enorme mostro oscurava la flebile luce della finestra.
Il corpo immondo simile a quello di un insetto, dal collo spuntavano tre teste di cane. Su ciascuna di queste un lungo corno che culminava in un occhio come di vetro eppure vivo. L’iride era azzurro, striato da vene di sangue che confluivano nella pupilla. Questa era nera, come un profondissimo pozzo di infinita oscurità. Le bocche spalancate, denti e lame intervallate e sporche di sangue.
Mi sollevai sul letto, sfregandomi gli occhi e scuotendo il capo cercando comprensione razionale in quella visione mostruosa.
Gli occhi sulle punte dei corni seguirono il mio movimento e il terrore mi inchiodò sotto le coperte.
Il demone allungò il braccio verso la bestia, poggiando il palmo della mano sul ventre di questa, ma non per allontanarla. Al contrario, gli si accostò lentamente, docile come avrebbe fatto un animale domestico che si avvicina al padrone.
Sulla parete opposta scorsi un lungo drappo appeso al muro, nero con striature color porpora, finemente tessuto in un materiale che non riconobbi ma che poteva essere simile alla seta. Sul drappo raffigurazioni di diavoli e bestie. Sette cani, al centro, si contendevano una preda ringhiando e sbranando, strappando pezzi di carne dal corpo morto di un neonato e divorandosi l’un l’altro con le lunghe zanne.
Sul drappo, in alto, era stata tratteggiata in chiare lettere color del sangue una parola.
ABORTUS
Il demone mi osservò, lasciando cadere il cappuccio sulle magre spalle e mostrandomi il suo volto.
Questo, unico dettaglio di quella notte, non lo ricordo, ma in quel momento compresi di essere perfettamente sveglio e che il mio non era un sogno.
Si accostò al letto, muovendosi senza camminare, quasi volteggiando nell’aria fredda della stanza. Quando mi fu accanto sentii il puzzo del suo alito marcio, cadaveri putrefatti e fogna.
Allungò il braccio e io non potei muovermi. Quando mi toccò ebbi la comprensione della morte. Fui, per qualche istante, insieme vivo e morto.
Fu allora che la mente se ne andò con lui, via da quella stanza e dal mio letto.
Allora fui in una piazza. Sentivo il calore del sole alto e l’aria fresca che mi accarezzava la pelle. Dai ristoranti tutto intorno si sprigionavano odori di cibo. Carne cotta e spezie, burro fritto e dolci. Li distinguevo nitidamente, mentre in sottofondo avvertivo l’odore dell’alito del demone che, ancora accanto a me, era tornato a indossare il cappuccio mentre la bestia a tre teste ci seguiva a distanza.
Al centro della piazza, ricolma di gente, una donna gravida era in terra e urlava e gemeva gettando strepiti disperati. Soltanto un uomo la sosteneva reggendole le spalle, pallido e muto, mentre il resto degli uomini e delle donne le lanciava qualche sguardo distratto e poi si allontanava in fretta.
Allora il demone, che ancora mi stava accanto, si staccò da me e si diresse verso di lei.
Questa, unica nella piazza, lo vide e lo chiamò. Neppure l’uomo che reggeva la donna dalle spalle vide il demone quando questi si abbassò e le parlò. Non compresi cosa si dissero, ma il volto di lei si fece scuro. Poi, in breve tempo, la donna smise di urlare e il demone fu di nuovo da me.
La bestia che ci aveva seguiti fin lì ringhiò di collera, e allora il demone si accostò ad essa e lanciò alle tre teste fameliche un brandello di carne che teneva sotto il mantello.
I cani lo divorarono strappandone pezzi e mordendosi a vicenda, mentre il sangue grondava copioso dalle loro bocche insozzando il selciato della piazza.
Ancora una volta il demone mi toccò e ancora una volta con la mente lo seguii in un altro luogo.
Allora ci trovammo su un monte, in piedi su una roccia a picco su una profonda vallata. La bestia a tre teste ci aveva seguiti e stava in disparte, acquattata al limitare di un fitto castagneto. Le teste si dimenavano e contorcevano, mordendosi a vicenda. D’un tratto queste si fermarono fiutando nell’aria l’odore di una preda e allora l’animale partì di corsa alla ricerca di cibo, ululando e sbavando. Allora il demone lo richiamò e la bestia tornò strisciando accovacciandosi ai piedi del padrone, le bocche aperte dalle quali cadevano rivoli di bava nera.
Dalla roccia riuscii a scorgere un piccolo paese sul fondovalle, un ammasso di minuscole case tutte attaccate. Dall’agglomerato urbano usciva una donna, piegata sotto il peso di una gerla colma di fieno. La donna si fermò, poggiando il carico sul muretto che cingeva una fontana e affondando le braccia nell’acqua fin sotto le spalle. Il ventre era gonfio, e la veste che la copriva bastava appena a coprirne il corpo esile. Si sedette sul bordo della fonte, e quando la vidi accarezzarsi la pancia con le mani ancora bagnate sentii le mie guance cospargersi d’acqua fresca e pulita.
Allora il demone si allontanò da me, e in un secondo aveva disceso la vallata per accostarsi alla donna.
Quando lo vide lei gettò un grido, al quale la bestia a tre teste, che era rimasta accanto a me senza seguire il suo padrone, rispose ululando.
Le tre teste fiutarono l’aria e mi puntarono spalancando le enormi fauci. Credetti che mi avrebbero divorato, ma allora il demone tornò dalla vallata e li scacciò con un solo gesto.
Poi, avvicinandosi con il braccio ossuto, mi toccò ancora, e allora finì tutto.
Ero di nuovo in camera, nel mio letto. Il demone era scomparso, e con esso la bestia.
Soltanto il drappo era ancora appeso, sulla parete opposta della stanza, ma era cambiato.
Sul fondo nero e porpora i disegni erano mutati. I sette cani al centro ora laceravano il corpo di una donna. Aveva appena partorito, e il bimbo ancora in fasce giaceva in disparte, il volto contorto in un pianto disperato.
I cani avevano strappato lembi di carne dal ventre della donna e la divoravano. Questa, protesa verso il bimbo, allungava adesso le braccia morenti verso la sua creatura.
Ne osservai il volto. Nel buio della mia stanza non riuscii a distinguere tutti i dettagli di quei disegni, ma sono certo di quel che vidi. La donna era mia madre.
Ne riconobbi i lineamenti morbidi, e nello sguardo amorevole che lanciava al bimbo riconobbi quello che era solita rivolgere a me.
Anche la scritta era cambiata. Ancora una volta era stata vergata a mano con un inchiostro di sangue che ancora colava dalla base di ogni lettera.
SACRIFICIUM
Quando mi alzai dal letto il drappo svanì, sgretolandosi sotto i miei occhi e lasciando sul pavimento un misero mucchio di polvere, ponendo fine a quell’esperienza tremenda.
Era il giorno del mio diciottesimo compleanno. Da allora non mi è più accaduto nulla di simile. Non ho più incontrato quegli esseri immondi, sebbene questi tornino spesso a tormentare i miei sogni.
Solo qualche volta, nelle fredde sere d’inverno, mi pare di sentire il ringhio di un cane di là della finestra. E allora mi sporgo, cercando la bestia a tre teste e il demone fin oltre la strada.
Magari con loro potrò rivedere mia madre. La donna che mi aveva salutato amorevolmente quella sera d’inverno e che la mattina dopo, il giorno del mio compleanno, era sparita.
Non la rividi più.
Bello!
Grazie mille!